L’arma suicida della disuguaglianza nella guerra al futuro

Dieci anni fa, il 13 settembre 2013, a Cradle of Humankind, sito paleoantropologico
sudafricano a 50 km da Johannesburg, fu fatta una scoperta sensazionale.
Vennero rivenuti, in quello che era stato un luogo di sepoltura, i resti di diversi esemplari
di una nuova specie di ominide: l’homo Naledi. Uno degli inumati, teneva al petto un
oggetto, forse un attrezzo o un’arma; difficile stabilire come più stupefacente il fatto che
una specie diversa dalla nostra utilizzasse in vita oggetti o il fatto che seppellisse in morte
i propri estinti, ma indubitabilmente una cosa, risultò ancora più sbalorditiva, suggerita
dall’esemplare sepolto con il suo utensile: questa specie credeva nell’aldilà.
Di questo, anche un ateo può percepire la potenza, ma ancor più importante diviene
ineludibile come se tanto simili tra loro possono essere, fino alla morte e oltre, specie
animali differenti, ciò restituisce un senso – o un dissenso – tutto nuovo e ad un tempo
antico al concetto stesso di altro, se declinato alle maniere deteriori e distruttive delle
disuguaglianze.
Non bisogna scomodare, né tantomeno aderire, all’anarco-primitivismo di John Zerzan
(e neppure al Walden di Thoreau) per concordare come società a strutture più complesse
successive a quelle di caccia e raccolta abbiano, al jingle del mantra di una crescita ad
ogni costo & a tutti i costi assurta a totem del capitalismo ordoliberista post-’89, sia
perduto in tutela della salute che sacrificato qualità della vita.
In quella che non è la Culla dell’Umanità bensì più modestamente quella delle moderne
democrazie euroccidentali, Roma, gli italiani non se la passano troppo meglio dei naledi.
Tra italiani, non interspecie, siamo ben diversamente eguali. Non per natura, ma per
legge. D’altra parte, già Nicolas de Condorcet, nel suo Esquisse d’un tableau des progrès
de l’esprit humain del 1794, aveva scritto: “È facile dimostrare che le fortune tendono
naturalmente all’eguaglianza e che la loro eccessiva sproporzione o non può esistere o
deve rapidamente cessare, se le leggi civili non stabiliscono mezzi artificiosi per
perpetuarle o per riunirle”.
In Italia, gli ultimi trent’anni di berlusconismo hanno ingenerato un imbarbarimento
culturale, un inaridimento del tessuto connettivo sociale che accompagnato all’altare
elettorale da un turboliberismo da bere – anche nel senso del crederci – ha svuotato la
botte e fatto ubriacare l’intero Paese. Ad personam. A tutto vantaggio di una singola
persona che ad personam ha ingenerato nei codici giuridici come nelle coscienze

collettive una torsione, un tradimento in radice della ratio egualitaria di ogni cittadino
davanti alla legge.
Al risveglio, l’hangover del Governo Meloni con un programma libro dei sogni, o degli
incubi che, anche se restano su carta come tigri inanimate, non fanno meno paura, e non
minacciano minori danni.
Al primo punto, e tra le poche cose effettivamente realizzate, la macelleria sociale:
l’abolizione del reddito di cittadinanza
Da ultimo, la riforma dell’Irpef, con un taglio delle tasse per chi guadagna più di 50mila
euro.
In mezzo, il vuoto, anche quello di puro pretesto à la Milei del “no hay plata”, eterno
ritorno del gioco delle tre carte strumentale per poter spostare le risorse su altro, su altri,
sempre e comunque i ricchi da rendere più ricchi. Persino quando si aggredisce una
misura se non trasformazionale comunque volano di un settore nel bene e nel male
nevralgico come l’edilizia – in questo caso nel bene, perché a consumo di suolo zero,
attraverso recupero e miglioramento energetico – come il Superbonus, certo costosa e
anche non propriamente egualitaria (ne beneficia chi già ha un bene immobile), ebbene
persino in questo caso si colpiscono i più sguarniti e stremati, dando un colpo di spugna
alla cessione di credito e sconto in fattura: chi vorrà d’ora in poi aderire ad un bonus
edilizio, dovrà averne già i soldi, tutti, maledetti e subito. In barba al Parlamento Europeo
con le sue Case Green. Al pianeta che può attendere, e nell’attesa sciogliersi.
Tutto questo ben in linea con un Paese, l’Italia, che tra quelli Ocse si colloca ai primi
posti in termini di disuguaglianza di reddito.
255.957 le persone che nel corso del 2022 si sono rivolte alla Caritas: erano state 227.566
nel 2021, con un trend incrementale che dal 7,7% ha sfondato quota 10%, in attesa dei
dati 2023 che un po’ come il Governo non promettono nulla di buono. Purtroppo, però,
mantengono.
Più della metà degli indigenti (54,5%) del Paese soffre di povertà “multidimensionale”,
ovvero legata a due o più ambiti di bisogno.
Le fragilità che prevalgono sono:
 80% povertà economica (reddito insufficiente);
 48% problemi occupazionali;
 21% problemi abitativi.
 seguono i problemi familiari (separazioni, divorzi, conflittualità), di salute o legati
ai processi migratori.
C’è poi da considerare la trasmissione intergenerazionale della povertà: più che altrove
essere poveri da bambini in Italia è altamente predittivo dell’esserlo anche da adulti. Tra i
Paesi industrializzati il nostro è quello in cui il tasso di mobilità è agli ultimi posti. Il

28,9% dei (pochi) nuovi nati resta intrappolato nella stessa posizione sociale genitoriale,
da che
L’Italia risulta ultima tra i Paesi europei più industrializzati per mobilità sociale. Per i nati
in famiglie poste in fondo alla scala sociale diminuiscono le opportunità di salire e, tra
loro, il 28,9% resterà intrappolato nella stessa posizione sociale dei genitori, da qui
l’espressione sticky floor.
Per uscire dalla povertà, quando va bene, ci vogliono non meno di cinque generazioni,
altro che patto generazionale. E i poveri assoluti sono tanti, 5,6 milioni, uno su dieci. E
crescono sempre più, sempre più poveri.
Tra i fattori più decisivi della crescita di determinate disuguaglianze in forte, feroce
controtendenza con il resto del mondo, vi è stato l’attacco al lavoro, lo smantellamento
di un modello su cui si è prima fondata e poi affondata la Repubblica attraverso riforma
Treu nel 1997, riforma Biagi nel 2003 e Jobs Act di Renzi nel 2015. Puntando sulla
precarizzazione si è ottenuta la polverizzazione da due secoli di classi a due anni di naspi.
In tutto questo, l’Italia non è soltanto sola contro tutti (o contro il 99%, almeno) ma
anche contro il corso della storia.
Al netto della percezione peninsulare, e pur considerate le iniquità insopportabili di
ricchi sempre più ricchi e dei GAFAM che approfittando di una regolamentazione che
arranca, e che prova a chiudere la stalla con un po’ di scotch quando i buoi sono ormai
lontanissimi ed enormi, essendosi arricchiti alle nostre spalle sottraendoci surplus
comportamentale, dati, vita, le disuguaglianze sono in storica, sistemica diminuzione.
Può suonare lunare, sul pianeta Italia, ma ogni indicatore, dal Global Gender Gap
all’indice di GINI, vede un’inversione di tendenza anche con cocciuta costanza – pur
considerati setback importanti come la crisi dei subprime 2007-2008, quella pandemica,
quella putiniana – della disuguaglianza generale.
Esiste, almeno dalla fine del XVIII secolo, un processo storico orientato verso
l’uguaglianza. Il mondo dei primi anni del XXI secolo, per quanto ingiusto possa
sembrare e percepirsi, nella propria bolla ridotta come nella analisi più prossima, è più
egualitario di quello del 1950 o di quello del 1900, i quali, di per sé, erano già per molti
aspetti più egualitari di quelli del 1850 o del 1780.
Tra il 1780 e il 2020, nella maggior parte delle regioni e delle società globali, sono
osservabili processi indirizzati verso una maggiore uguaglianza di status, proprietà,
reddito, genere ed etnia.

La speranza di vita alla nascita su base mondiale è passata dalla media di 26 anni circa,
nel 1820, a 72 anni nel 2020. All’inizio del XIX secolo, la mortalità infantile colpiva, nel
corso del loro primo anno di vita, circa il 20% dei neonati, contro meno dell’1% di oggi.
L’umanità oggi gode di uno stato di salute che è il migliore da sempre e di un accesso
all’istruzione e alla cultura che è il più esteso di sempre.
Le informazioni raccolte in numerose indagini e censimenti permettono di stimare che,
all’alba del XIX secolo, appena il 10% della popolazione mondiale con un’età superiore
ai 15 anni era alfabetizzato, contro l’oltre 85% di oggi.
In Italia, tuttavia, la storia non è legge.
Per fortuna, l’indicazione di de Condorcet vale anche all’inverso, ed ecco che se non i
programmi sempre più vuoti e nefasti, la legge fondamentale dello Stato appare ancora e
come mai lungimirante: nella Costituzione non solo è prevista la progressività fiscale, ma
trovasi persino un fondamento giuridico alla radice della bontà del reddito di base, a
partire dall’articolo 38, che nel primo comma conferisce il “diritto al mantenimento e
all’assistenza sociale” a “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari
per vivere”, e nel secondo comma stabilisce che “i lavoratori hanno diritto che siano
preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” non solo “in caso di
infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia”, ma anche in caso di “disoccupazione
involontaria”.
C’è poi nella Carta un altro fondamento del reddito di base in entrambe
le sue versioni, quella universalistica e incondizionata e quella condizionata
alla mancanza di lavoro o allo stato di bisogno: nell’articolo 42, quello
dedicato alla proprietà privata, al secondo comma si stabilisce che la legge “determina i
modi di acquisto, di godimento e i limiti” della proprietà “allo scopo di assicurarne la
funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Dunque, la legge deve rendere possibile
a tutti l’accesso alla proprietà. È una norma che può essere intesa non solo come un
corollario del principio di uguaglianza formale in ordine alla capacità d’agire e ai diritti
civili, ma anche, sulla base dell’associazione a “proprietà privata” del predicato
“accessibile a tutti”, come un’enunciazione interamente esplicativa del principio di
costituzione materiale di uguaglianza sostanziale. Deve insomma risultare accessibile a
tutti, secondo questa autorevole interpretazione, una qualche forma di proprietà:
quantomeno dei beni elementari necessari alla sussistenza.
Il sovente citato pontefice ha affermato che il diritto alla proprietà privata si può
considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della
destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che si
riflettono sul funzionamento della società.
Ecco due passaggi rispettivamente degli articoli 42 e 44 della Carta costituzionale:

“La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne
determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di
assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo,
espropriata per motivi d’interesse generale.
[…]
Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire
equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà
terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e
le zone agrarie.”
Questo principio di superiorità della funzione sociale e dell’interesse generale, perseguito
dal Governo Conte II in pandemia con il blocco degli sfratti, è stato poi definitivamente
sancito, con sentenza definitiva, dalla Consulta.
Corte costituzionale 1, capitalismo cannibale 0.
Mettere in discussione dei capisaldi del libero mercato pareva quello sì lunare,
ultragalattico, non più tardi di 25 anni fa, ma per fortuna la semina era stata fatta 75, anni
fa, ed ora vi sono i frutti da poter e dover cogliere.
Conviene non al suddetto 99% ma al 100%, come d’altra parte persino personalità come
Bonomi e convention come Cernobbio ormai riconoscono.
E come ci ha insegnato il coronavirus. I Paesi di Terzo e Quarto mondo non solo non
hanno ricevuto terze e quarte dosi, ma non han ricevuto nemmeno la prima, venendo
ricompensati però da 37 mutazioni del virus in una delle più recenti varianti, la Omicron,
che ai furbissimi furbetti fessi, i Paesi più ricchi, è tornata indietro con gli interessi in
termini di terapie intensive piene e vicoli ciechi ingolfati anch’essi. Con buona pace di
Fortezza Europa che s’è scoperta più accessibile e aggredibile che mai, innanzitutto da sé
stessa, sulla vicenda vaccinale. Each one shot or no one any, ovverosia ciascuno abbia
una somministrazione o nessuno avrà una speranza.
Ciò in cui è fallito il comunismo lo ha fatto il coronavirus, purtroppo in declinazione
deteriore e devastante.
In un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, oltreché popoloso e piccino,
non si può più farsi sovranisti e fare da soli. Se la destra sociale non ha mai offerto
garanzie la destra macelleria sociale è come non mai garanzia di insuccesso, e prospettiva
di passato.
Non occorre riscomodare l’antica saggezza sudafricana del noto adagio da soli più veloce
(ma incontro alla morte), assieme più lontano per stabilire che di lungimiranza in Italia se
ne è avuta spesso pochissima.
Grazie ai soliti pochi noti. Per limitarci all’ultimo quarantennio, in testa Craxi con
l’abolizione il 14 febbraio 1985 della scala mobile a fronte, tra gli altri palliativi per le allodole, il blocco dell’aumento dell’equo canone di cui Confedilizia chiese e ottenne la
testa al Governo Amato appena sette anni più tardi.

Oggi il nuovo fronte, molto più pericoloso della prospettiva di un premierato forte
all’amatriciana dove, comunque, ci vorranno sempre i voti, è l’autonomia differenziata,
che colpisce aree nevralgiche istituzionali, amministrative e sociali dove non ci saranno
più soldi. Certo, almeno questo sembra far pace con la storia, si torna alla machiavellica
Italia delle signorie, dei principati, dei campanili e delle repubblichine, ma
indubitabilmente è una dichiarazione di guerra al futuro.
Se persino la direttrice operativa del Fondo Monetario Internazionale Kristalina
Georgieva si è espressa – pur sbagliando nel prospettare libera crescita illimitata in luogo
di una più egualitaria redistribuzione generalizzata – lo scorso 14 marzo per
un’aggressione delle disuguaglianze nel corso dei prossimi 100 anni come vettore e
visione di futuro, si può ben sperare che l’Italia si arrenda a far pace con la storia e si
adegui allo zeitgeist. Di più, di poterlo sperare: si deve spingere.

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